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Varia sur la Passe #67

PASSE E PASSE ALL’ENTRATA

par Carmelo Licitra Rosa

 

Ho esitato a lungo prima di intervenire in questo appassionante dibattito in corso sulla passe.

Si discute tra l’altro dell’opportunità o meno di reintrodurre la passe all’entrata.

Ho potuto maturare al riguardo un’opinione abbastanza meditata, sia perché in Italia la passe all’entrata per un certo tempo è stata in vigore, sia perché io stesso ho fatto la passe all’entrata molti anni prima di fare la passe all’uscita, dopo la quale fui nominato AE.

Sento inoltre il dovere di sottolineare tutta la delicatezza dell’argomento, che mal si concilia con una posizione troppo netta. La questione della passe all’entrata presenta diversi risvolti, tutti degni di essere presi in considerazione, e infatti proprio per questo la politica della passe all’entrata ha conosciuto numerose oscillazioni negli ultimi venti anni di storia del Campo freudiano, a partire dal 1990, anno in cui – se non erro – fu lanciata da Jacques-Alain Miller in Spagna.

La mia opinione. La passe – ci ricorda Jacques-Alain Miller in un breve testo sulla formazione analitica dell’anno 2000 – ha tre finalità: clinica, epistemica e politica. Quest’ultima finalità mira a far sì che le cure si prolunghino e che il desiderio che lega il soggetto al discorso analitico non collassi anzitempo, imboccando scorciatoie o deviazioni. Che cos’è che può far collassare precocemente il desiderio? La pratica analitica ci permette di rispondere: una identificazione, qualunque essa sia. L’identificazione imprigiona, fissa il desiderio nel suo solco, con la possibile conseguenza di arrestarne la tensione a rilanciarsi oltre. Ora, l’identificazione è ciò che si deposita immancabilmente dopo qualsivoglia riconoscimento, ivi compreso il riconoscimento della passe. Per questo una scuola di psicoanalisi è e deve essere parca di riconoscimenti, dal momento che l’unico riconoscimento che può conferire, senza timore di interferire col desiderio, è quello dell’avvenuta assunzione dell’oggetto a da parte dell’analizzante: evento questo quanto mai difficile da discriminare, in mancanza di criteri oggettivi o oggettivabili.

Le identificazioni possono essere innumerevoli e rischiano di moltiplicarsi in modo direttamente proporzionale al proliferare di iniziative istituzionali, anche pregevoli, che comportino cariche e responsabilità: centri clinici, consultori, ecc… Ciò da un lato è inevitabile, ma dall’altro – se quel che dico ha un senso – dovrebbe indurre a una maggiore prudenza e circospezione.

Cosa posso suggerire? A mio avviso, occorre che l’ambito della scuola sia l’ambito sempre più deciso della psicoanalisi pura. Ciò non vuol dire l’ambito di una élite: lo vedo piuttosto come un ambito variegato, multiforme, colorato – oserei dire – popolato da tutti, giovani e meno giovani, ciascuno nel suo particolare rapporto col discorso analitico. L’avvenimento delle recenti Journées di Parigi ci attesta che questo è possibile. Ma questo è e sarà sempre più possibile se le scuole si liberano e si libereranno con sempre maggior decisione di ogni residua contaminazione col discorso del padrone, che implica inevitabilmente gerarchie di titoli e di riconoscimenti, che diventano pericolosi sinonimi di riconoscimento sociale con conseguenti ricaschi di prestigio, di richiamo di clientela, ecc…

Non voglio essere frainteso. Non sto minimizzando né disdegnando tutto ciò: dico solo che, a mio parere, tali legittime aspirazioni – il successo, la celebrità, la fortuna, ecc… – devono essere disgiunte da una scuola di psicoanalisi, devono essere coltivate cioè in ambiti distinti, che non si confondano, anche indirettamente, con la scuola.

Una scuola povera di identificazioni è la scuola di una passe all’uscita, dove ci si applica a discernere se c’è un analista e che cos’è un analista. In questa scuola ci saranno gerarchie? Sì, ma solo quelle che scaturiscono dal rapporto di ciascuno col discorso analitico e con la pratica analitica.