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L'Ecole Une #85

Céline Menghi, La piscina di cristallo

– Mi è capitato a Milano lo scorso dicembre, in occasione del seminario di Eric Laurent, in quell’ora dedicata al «parlare fuori dai denti», di prendere spunto dalla metafora del «trampolino di lancio verso la Scuola» che il nostro nuovo AE Sergio Caretto evocava per elucidare le molteplici attività dei colleghi di Torino. Quando visualizzo il trampolino di lancio, da un po’ mi si impone l’immagine di una piscina. Il trampolino evoca il tuffo e dunque l’acqua, ma qui si tratta di una piscina in disuso, fuori stagione, lasciata alla mercè delle intemperie, con un fondo di acqua piovana terrosa mescolata a vecchie incrostazioni. L’acqua è così poca che, se ci si lancia dal trampolino, ci si sfracella o, alla meglio, se si rinuncia al tuffo, non si riesce comunque a nuotare.

– Nel 1956, un architetto milanese esponeva alla X triennale di Milano la famosa Piscina di cristallo. Per struttura fu scelto il cemento armato – e non il ferro – per evitare deformazioni elastiche che avrebbero reso precarie la resistenza del materiale trasparente di chiusura, la sua tenuta all’acqua e la perfetta visibilità attraverso di esso. I pannelli di cristallo che racchiudevano l’acqua erano del tipo «triplex temperato» fornito dalla VIS di Pisa, cioè due lastre temperate con plastica in mezzo atte a evitare l’appannamento che avrebbe reso la visibilità precaria, e con una capacità di tenuta a carichi addirittura superiori a quelli previsti.

Ricordo che il giorno dell’inaugurazione mio padre, l’architetto, tenendomi per mano, mi aveva fatto fare il giro della piscina che mi era parsa naturalmente immensa. Da tutti i lati del grande parallelepipedo si potevano osservare i nuotatori che si tuffavano e facevano prodezze in quella trasparenza aperta al cielo, che lo sguardo abbracciava a tutto tondo, fin nelle immersioni più profonde.

– Struttura. Tenuta. Trasparenza. Solidità. Profondità. Movimento. Tuffi. Stili liberi. Che meraviglia! La Scuola come una piscina trasparente? Un «triplex temperato»? Nuotare, tuffarsi, riemergere, fare il morto a galla, ripartire e tuffarsi ancora! Una visione idilliaca? Un peccato di ideale? Un fantasma non consumato? Questo suggerisce l’immagine forte e liquida? O forse semplicemente serve a evocare – a contrario – la nudezza profonda e fredda delle pareti di cemento, opache, lungo le quali si fatica a risalire, là dove manca la spinta verticale dell’acqua che sostiene la barca, che sostiene e sospinge i corpi, che è onda di trasmissione, che è onda transferale.

I nuotatori ci sono, ognuno con il suo stile: chi a rana, chi alla marinara, chi sul dorso, chi a delfino o a farfalla, chi al battito elegante del crwoll, ci sono anche quelli prudenti che, seppur timidamente, tasterebbero con la punta del piede l’acqua prima di decidere se lanciarsi. Ma l’acqua, nella nostra di piscina, non basta ed è per giunta torbida, allora si va a nuotare dove si può.

Ci si arrangia, si va a nuotare là dove ancora circola il transfert di lavoro, dove si odorano sprazzi e profumo di desiderio e anche perché all’orizzonte esiste la Scuola Una nella quale, si diceva a Buenos Aires il 14 luglio del 2000 – tra l’altro era toccato a me leggere la dichiarazione per l’Italia -: “[…] all’inizio di questo nuovo secolo, i firmatari, membri

dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, si riconoscono come compagni di una

stessa causa e dichiarano di costituirsi in Scuola Una.

Una, nonostante la diversità delle lingue e delle tradizioni culturali.

Una, nonostante le distanze geografiche.

Una, nel senso opposto alla tendenza naturale all’allontanamento, alla divergenza,

allo sbriciolamento.

Una, ma senza la noia che si accompagna all’omogeneità dell’Uno perché plurale

e non-standard.

Scuola, che ha i suoi AE, la cui passe è verificata nello stesso dispositivo messo

all’opera in ciascuna delle Scuole, secondo procedure omologhe”.

Il nuovo secolo ha compiuto dieci anni, forse è giunta l’ora che noi membri della SLP c’interroghiamo sul nostro rapporto di compagni di una stessa causa con la costituzione in una Scuola Una, senza la noia e senza lo sbriciolamento…

E’ giunta l’ora di un lancio in mare aperto, se davvero crediamo che all’orizzonte ci sia la Scuola Una che polarizza il transfert, i transfert.

La Scuola Una serve, così è stato per me, serve nei momenti di noia, di mortificazione, di stagnazione, a ricordarci che non siamo soli.

– Estela Paskwan (JJ n° 75) e naturalmente Jacques-Alain Miller, Eric Laurent, c’interrogano. Siamo i grandi assenti della Scuola Una. Siamo menzionati più per le nostre beghe con i loro toni da cortile che per la nostra produzione clinica o teorica.

E’ giunta l’ora di dire bene, di parlare fuori dai denti e fuori dai corridoi – ce lo siamo detti tante volte – per non inabissarci in un silenzio che fa pensare al consenso, e per non lasciare soli quei colleghi che ancora mantengono ferma una posizione analitica.

E’ giunta l’ora di parlare senza retorica, la solita retorica, a tratti livida o carica di livore, che spesso ha contraddistinto i nostri dibattiti passati, dove significanti quali AGALMA, ETICA, DESIDERIO, e non ultima l’esilarante AFFECTIO SOCIETATIS, suonano vuoti, come bucce, a velare un reale pesante come un macigno, come il cemento della piscina vuota, senza trasparenza e senza levità.

Nel n° 78 del JJ, Jacques-Alain Miller ci ricorda che «la Scuola, in quanto ha dei membri, che seleziona, non è la psicoanalisi pura, è la psicoanalisi applicata. E’ la psicoanalisi applicata alla costituzione e al governo di una comunità professionale, e alle relazioni di questa comunità con i poteri stabiliti nella società, e con l’apparato dello Stato». Ecco, allora, la necessità di una Scuola d’analisti che applichino la psicoanalisi prendendo in conto che c’è un reale della Scuola stessa. Bernard Seynhaeve diceva, a Barcellona nel 2008, che il compito dell’AE è quello di analizzare la Scuola.

– A Milano mi è capitato di dire che la SLP è morta e tante volte ho avuto l’impressione di una cosa inusabile. Non è stato facile dirlo davanti ai colleghi, agli amici, ma non mi è tremata la voce, il mio residuo sintomatico si è fatto leggero lasciandomi in pace. Dovrò assumerne le conseguenze. Ricorro di nuovo all’immagine della Piscina di cristallo. A partire da una fotografia è stato fatto un quadro di tale piscina. Sulla tela, grazie all’intervento dell’artista, il parallelepipedo ospita ora oltre ai nuotatori dei pesci rossi, e appare come una grande nave appena attraccata a Ellis Island, mentre la folla dei visitatori della Triennale sembra una moltitudine di uomini, donne e bambini che si mescolano agli abitanti del Nuovo Mondo in cui vogliono vivere e lavorare.

Bisogna che le istanze della SLP, non solo acconsentano a un ricambio dell’acqua, ma che, ancor prima, possa immettersi l’acqua e che sia poi curata questa acqua, e che la libertà di ciascuno possa esprimersi in bracciate lunghe e larghe. Intendo per libertà quella di seguire il transfert di lavoro e analitico là dove tende a posars, senza correre il rischio di essere guardati a vista, di essere mal visti, di essere sparati a vista, di diventare i Bilal del Campo freudiano, come in Welcome di Philippe Liret.

Ci vuole il rispetto da parte di ciascuno dei membri della SLP nei confronti dell’origine e nei confronti del destino del desiderio, molla prima di qualsiasi movimento: verso il nuovo, verso il singolare. Forse così possiamo concorrere alla costituzione di una Scuola come campo magnetico, un “triplex temperato”(!), dove la libertà non è una libertà a caso, che se ne frega del campo, ma quella di chi lavora per la causa analitica. A tal proposito, aspettiamo sempre che accanto al nome di certi lavoratori compaiano le tre lettere: A M E. Non è tutto lì, in quelle lettere, certo, ma è pur sempre il segno di un riconoscimento da parte della Scuola per il lavoro e l’impegno di certi colleghi” compagni di una stessa causa”.

– Ci chiedono perché la passe non funziona in Italia, eppure, la Scuola Una “ha i suoi AE, la cui passe è verificata nello stesso dispositivo messo all’opera in ciascuna delle Scuole, secondo procedure omologhe”, recita la dichiarazione della Scuola Una.

E’ la storia dell’uovo e della gallina. Le domande di passe ci sono state, la prova è che alcuni membri della SLP sono stati nominati AE – da cartelli non italiani. Perché, se ci sono state e forse ci sono ancora domande di passe, la SLP non ha il suo dispositivo messo all’opera? Dov’è la Scuola? E’ questa la domanda che sorge ancora una volta. Dov’è la Scuola che possa sostenere tale dispositivo? Ci vuole prima la Scuola o prima il dispositivo? Il rispetto cui accennavo prima porta con sé la discrezione, la discrezione porta la fiducia, cosa che non sempre ha costituito un punto fondante, e non pregiudicabile, già di quel dispositivo che viene ancor prima del dispositivo della passe: il dispositivo analitico. Senza la fiducia negli analisti, tra gli analisti, verso gli analisti, è impensabile la costituzione di un cartello della passe, un cartello composto di analisti all’altezza del compito di testimoni. Ai tempi dell’istituzione della passe d’entrata in Italia, quando ero passeur, prima del famoso 18 dicembre 1999, mi colpì la frase della nostra ex collega, Annalisa Davanzo: “Neanche morta farei la passe in Italia!”. Mi dicevo: ma come, lei, presidente della SISEP e membro del cartello della passe, può dire una cosa del genere!

In seguito Miller considerò che non ci fossero «le condizioni perché nella Sisep si possa fare la passe. Svolgere la passe nella Sisep era un atto di fiducia nella possibilità di autoregolarsi da parte del gruppo italiano. Un atto di fiducia nei confronti degli AME italiani. Ma non funziona» (Le passe in corso si terminarono un anno dopo, se ben ricordo, a Madrid). Sono trascorsi da allora undici anni.

– C’è un’altra questione. Se ci sono degli AE nella SLP – due scaduti, uno all’ultimo anno e uno appena nominato – che cosa ne fa la Scuola di questi AE, che cosa ne ha fatto di quanto hanno mobilitato fin dal primo impatto delle loro testimonianze? Due sono scaduti, dicevo, e – per certi versi – non ce ne siamo quasi accorti. Una è ancora in corso per un anno, e a volte quasi me ne sono dimenticata. Uno è appena stato nominato, che ne sarà di lui? Quanto a me, l’una ancora in corso per un anno e che me ne sono quasi dimenticata, – parlo a nome mio ma mi piacerebbe che gli altri AE si esprimessero -, è solo fuori dall’Italia che ho sentito che qualcosa della libido che la passe e il dopo passe smuovono continuava a muoversi, a smuovere e a muovermi, ovvero a insegnarmi. Un’altra volta è successo, è vero, quando la seconda e ultima serata degli insegnamenti della passe (dovevano essere tre) ha coinciso con una Conversazione clinica a Roma e molti allievi dell’Istituto freudiano sono rimasti ad ascoltare i tre AE. Quella volta si è dileguato il sentimento di solitudine.

– Si dice che la Scuola italiana è divisa. Non sono d’accordo, a meno di non volerla vedere con: da una parte le istanze e dall’altra i nuotatori. Altrimenti, la divisione della SLP è un fantasma, un fantasma passepartout, atto a velare il reale che solo possiamo soppesare nei luoghi adatti, uno per uno, anziché farlo rimbalzare da una gestione all’altra nel balletto delle turnazioni, mentre la libbra di carne la affetta qualcun altro, quella libbra che non passe par tout, ma passa, a volte, per un imbuto stretto.

– Potremmo apportare il nostro contributo alla Scuola Una non solo sintonizzandoci con i grandi temi del dibattito internazionale con una voce originale, come ben suggerisce il presidente della SLP Marco Focchi (JJ, n°80), ma, proprio perché la voce sia originale, attingendo maggiormente alla nostra storia, al nostro tessuto culturale e artistico, un tessuto che non è lo stesso di quello francese, seppur a volte con esso intrecciato e da esso ampiamente arricchito, un tessuto, il nostro, che forse deve più all’influenza mitteleuropea. La nostra cultura non è intessuta da decenni dei significanti lacaniani, del pensiero di Lacan, della sua straordinaria dimestichezza con gli artisti del suo tempo, nelle nostre Università non abbiamo litigato e amoreggiato con lui, mentre abbiamo avuto un’eredità scomoda che, non senza fatica, stiamo smaltendo come si smaltiscono le scorie. Pur sapendo che con le scorie si ha sempre a che fare, dobbiamo poter attingere anche a dei significanti nuovi, fruibili nel nostro paese, nella nostra lingua, perché possano servire da supporto e da veicolo al discorso analitico, con Lacan, con Jacques-Alain Miller e con tanti altri analisti della Scuola Una.

– E’ importante la lingua, la nostra lingua, la lalingua che articola la nostra storia come corpo, e che ne rivela la tessitura, ciò che non è solo una elucubrazione di sapere, per poter articolare ciò che resta profondamente femminile, arrangiato a partire da una certa inconsistenza. A volte noi scimmiottiamo a partire da un sapere preso a prestito, anziché inventare. E’ importante anche riflettere sul fatto che la situazione italiana, a livello delle politiche sociali, non è necessariamente la stessa di quella francese o parigina, come ogni giorno ci insegna la clinica che pratichiamo al Ce.Cli, nei Consultori di psicoanalisi applicata e nelle istituzioni del Campo freudiano, lungo una spina dorsale che sfiora le Alpi, l’Africa e prende fiancate dai Balcani, una clinica sempre più difficile che riflette il disagio della società del nostro paese, una clinica pensabile solo a partire dalla psicoanalisi pura e dalle nostre analisi personali.

– Concludo con le parole di Ungaretti, il poeta che credeva che “logica” e “forza geometrica” precedessero l’arte e che “non c’è la misura del mistero” ma c’è una misura che al mistero si oppone come manifestazione più alta e invenzione dell’uomo, il poeta che ha saputo scandagliare il segreto del barocco, quello di Michelangelo, il barocco che “sbriciola e ricostruisce”: ”In quegli anni [appena dopo la guerra], non c’era chi non negasse che fosse ancora possibile, nel nostro mondo moderno, una poesia in versi. Non esisteva un periodico, nemmeno il meglio intenzionato, che non temesse, ospitandola, di disonorarsi. Si voleva prosa: poesia in prosa. La memoria a me pareva, invece, un’ancora di salvezza: io rileggo umilmente i poeti, i poeti che cantano”.[1]

E’ un invito a noi membri della SLP a mettere la poesia al posto della retorica, la poesia che anche con Lacan si sostiene della logica e della forza geometrica da cui distilliamo la nostra misura, singolare e unica.




[1] G. Ungaretti, Ragioni d’una poesia, «Tutte le opere», Mondadori, Milano 1969, p. LXXIII.